L'effetto boomerang della tanto bramata felicità al lavoro.
Da tempo ho smesso di seguire chiunque continui a sostenere, scrivere e spingere il costrutto della “felicità al lavoro”.
Ogni due giorni, in perfetto stile spasmo muscolare, leggo di qualcuno che asserisce che “il lavoratore felice è anche un lavoratore più produttivo“.
Al netto della lapalissiana banalità, tutto questo proliferare di slogan a tamburo battente che neanche le pubblicità del canale Real Time riescono a raggiungere, ha prodotto un chiaro effetto boomerang all’interno delle organizzazioni.
La felicità, il buon umore, il sorriso, sono rientrati nelle caratteristiche richieste, quando non pretese, non solo da policy aziendali, ma anche nelle fasi generali di assessment e job analysis, ricoprono ultimamente i primi posti delle Work Attitude richieste.
Qualche HR Department temerario si è addirittura impegnato nell’inventarsi “giornate del buon umore”, “giornate del sorriso”, “giornate dell’accoglienza del vicino”.
Tutto questo genera nell’individuo un forte “lavoro emozionale”, ovvero una pressante richiesta di controllo delle proprie emozioni. Soprattutto in chi è spesso a contatto con il pubblico e deve mostrare una preoccupazione genuina per le esigenze del cliente, sorridere, essere sempre allegro, a prescindere dalle esperienze che sta attraversando o dagli stati d’animo.
Inutile asserire che, alla lunga, tutto questo rischia di essere controproducente, in quanto, reprimere il proprio stato d’animo può causare alti livelli di stress che possono portare facilmente all’esaurimento delle energie psico fisiche ed in alcuni casi al burnout.
L’effetto che generalmente si osserva è che si rischia di rendere “di plastica” anche ciò che potrebbe rappresentare un vero valore intrinseco per ogni cittadino organizzativo, e lo si trasforma in elemento di motivazione estrinseca, per piacere di più al capo, piacere ai colleghi, essere apprezzati in azienda; con il risultato di mandare avanti proiezioni di noi a contatto con l’organizzazione, che vogliono essere il più patinate e smaglianti possibile, creando una dissonanza emotiva e cognitiva che potrebbe accendere o alimentare un forte conflitto intrapsichico, che non giova né a noi stessi né all’organizzazione a cui apparteniamo.
Il controllo delle emozioni e “il richiedere la felicità in azienda” sono chiari strumenti di invasione della libertà personale.
Soltanto alcune imprese hanno capito che gli individui sono più produttivi solo se intrinsecamente appagati, e hanno introdotto a questo scopo programmi che integrano in modo concreto i vari domini esistenziali dell’individuo e non solo quello professionale.
Siamo ancora distanti da quel giorno in cui ognuno potrà, nel massimo rispetto altrui, avere il diritto di essere se stesso, a prescindere dall’umore, dal sorriso, dai momenti di felicità intrinseca legati alle proprie emozioni o stati d’animo. Solo in quel momento le aziende potranno asserire di essersi prese cura delle proprie persone.
Solo in quel momento gli individui saranno liberi di portare se stessi, nella propria quotidianità professionale, scevri dalla preoccupazione di mostrare una perfetta, smagliante e patinata work attitude accompagnata da sorriso di plastica, consapevoli di poter contare, eventualmente, su adeguati programmi di supporto concreto a seguito di interventi sociotecnici e psicosociali, lontani dalle richieste di entusiasmo per niente naturali.
Sarebbe pertanto più opportuno spingere i concetti dell’essere se stessi e della promozione di supporto, laddove necessario, piuttosto che la felicità ad ogni costo, sempre e comunque, che col suo effetto boomerang colpisce proprio chi la promuove, senza vederne le complesse venature e le tragicomiche conseguenze, quasi quanto l’immagine rappresentativa che accompagna questo articolo.
Se volete approfondire scrivete a: info@humanev.com